Il giardino di fiori di carta - cap. II, 2009

Quella mattina Anna si svegliò tutta sudata, in un letto vuoto. Accese la lampada sul comodino per guardare l’ora e capì che era ancora notte. 
Pensò che del sole non ci si potesse fidare e all’impossibilità che una notte durasse così a lungo; dopodichè non pensò più a nulla e fu subito a terra, con il capo riverso, contro il pavimento. 
Si era rotolata su un fianco tirandosi addosso il copriletto, il lenzuolo, l’abat-jour di ceramica e l’ardita sensazione di rialzarsi nuova.
In questa miseria del paesaggio i suoi occhi supplicavano l’anima per dar loro niente da vedere, perché gli occhi non guardano mai da soli.
Per tutta la notte avevano temuto le lacrime -sintesi della storia- ma insofferenti alle bende, gli occhi di Anna si scoprirono all’alba per la capitolazione.
Al sorgere del sole la voglia di piangere fu per lei la stessa che l’aveva accompagnata tutta una vita, ammesso che ne abbia avuta un’altra in cui il pianto era sinonimo di capriccio.
Assai meno di un amante e poco più di un’amica, Anna era soprattutto la moglie di suo marito; era anche la madre dei suoi due figli, ma questo lei lo capiva benissimo, che si può essere madri senza essere mogli e che si può essere mogli senza essere amanti [...]

[manuel mines minnella, il giardino di fiori di carta -cap. II, 2009]

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